La Collezionista
CAROLE BELLAÏCHE
fotografa ai Cahiers du cinéma
Museo Nazionale del Cinema di Torino
15 novembre 2007 – 13 gennaio 2008
Alberto Barbera
Direttore del Museo Nazionale del Cinema
Perché una mostra fotografica che prende spunto dalla
fototeca di una prestigiosa rivista di cinema? Le
ragioni sono molteplici. Una su tutte: la considerazione
che i Cahiers du cinéma – oltre a rappresentare,
storicamente, il luogo privilegiato della riflessione
critica sulla settima arte e di elaborazione di una
certa idea di cinema che non smette di essere punto di
riferimento (benché inevitabilmente controverso e
talvolta anche avversato) per i cinéphiles di tutto il
mondo – sono forse l’unica rivista a porsi seriamente il
problema del rapporto fra la scrittura e l’immagine, fra
i testi critici e le fotografie, fra “quanto viene detto
e quanto viene mostrato”, come dice bene Jean-Michel
Frodon nel suo intervento introduttivo a questo
catalogo. Consapevolezza acquisita dai Cahiers in epoca
piuttosto recente (nel 1979, per la precisione, quando a
Jean-Luc Godard fu affidata la redazione del numero 300
della rivista) – ma che finirà per imporsi quale
soggetto precipuo di riflessione in tutte le scelte
editoriali dei decenni successivi. La disattenzione
altrui è invece un fatto quantomeno paradossale, vista
la gran quantità di foto, perlopiù di scena o di set,
utilizzate dalle riviste di cinema di tutto il mondo per
illustrare i propri servizi o le recensioni dei film.
Ma, per l’appunto, di semplice illustrazione si tratta,
almeno nella maggior parte dei casi.
L’opera di Carole Bellaïche rappresenta invece il
miglior esempio di come, fra testo e immagine, possa
stabilirsi un rapporto diverso, uno scambio, un
confronto, una condivisione di intenti, di visioni, di
progetto. Una dialettica, insomma, meno scontata e meno
prevedibile del semplice rispecchiamento. Ciò che, in
sintesi, sto cercando di dire è che questa mostra è nata
dal desiderio di dare visibilità ad un doppio lavoro:
quello di una rivista, che si propone intenzionalmente
di riflettere e far riflettere sulle modalità con cui si
può “raffigurare” il cinema che si ama e si sostiene. E
quello di una fotografa il cui contributo al progetto è
imprescindibile, al punto che l’immagine del cinema
strenuamente difeso dai critici dei Cahiers con la forza
dei loro scritti finisce per coincidere, senza scarti e
senza mezzi termini, con i ritratti da lei realizzati.
Forse, fra qualche tempo, sarà più facile per tutti
rendersi conto di quella che ad alcuni appare già oggi
come un’evidenza: il fatto, cioè, che il cinema degli
ultimi quindici anni – perlomeno, il cinema difeso da
Cahiers (che piaccia o meno) – non ha altro volto se non
quello dei volti illuminati dalla luce dei suoi scatti.
Ritratti stupendi, dopo aver ammirato i quali non si
potrà non convenire che Carole Bellaïche (per quanto
giovane e ancora non abbastanza conosciuta al di fuori
del suo paese) ha da tempo varcato la soglia di quel
pantheon, piuttosto esclusivo nonché circoscritto,
destinato ad ospitare i grandi ritrattisti che hanno
scelto di mettere la propria arte al servizio del
cinema.
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