Al Lingotto di Torino,nasce il
nuovo Partito Democratico
Il discorso dei cento minuti di Walter Veltroni
Fare un’Italia nuova. E’ questa la ragione, la missione, il
senso del Partito democratico.
Riunire l’Italia, farla sentire di nuovo una grande nazione,
cosciente e orgogliosa di sé.
Unire gli italiani, unire ciò che oggi viene contrapposto:
Nord e Sud, giovani e anziani, operai e lavoratori autonomi.
Ridare speranza ai nuovi italiani, ai ragazzi di questo
Paese convinti, per la prima volta dal dopoguerra, che il
futuro faccia paura, che il loro destino sia l’insicurezza
sociale e personale.
Per questo nasce il Partito democratico. Che si chiamerà
così. A indicare un’identità che si definisce con la più
grande conquista del Novecento: la coscienza che le comunità
umane possono esistere e convivere solo con la libertà
individuale e collettiva, con la piena libertà delle idee e
la libertà di intraprendere. Con la libertà intrecciata alla
giustizia sociale e all’irrinunciabile tensione
all’uguaglianza degli individui, che oggi vuol dire garanzia
delle stesse opportunità per ognuno.
Il Partito democratico, il partito di chi crede che la
crescita economica e l’equa ripartizione della ricchezza non
siano obiettivi in conflitto, e che senza l’una non vi potrà
essere l’altra.
Il Partito democratico, il partito dell’innovazione, del
cambiamento realistico e radicale, della sfida ai
conservatorismi, di destra e di sinistra, che paralizzano il
nostro Paese.
Il Partito democratico, il partito che dovrà dare l’ultima
spallata a quel muro che per troppo tempo ha resistito e che
ha ostacolato la piena
irruzione della soggettività femminile nella decisione
politica e nella vita del Paese. La rivoluzione delle donne
ha affermato in tutte le culture politiche il principio del
riconoscimento della differenza di genere come elemento
costitutivo di una democrazia moderna. E’ questa esperienza
che dovrà essere decisiva, fin dal momento della fondazione
del nostro partito.
Il Partito democratico, un partito che nasce dalla
confluenza di grandi storie politiche, culturali, umane. Che
nasce avendo dentro di sé l’eredità di quelle formazioni che
hanno restituito la libertà agli italiani, di quelle donne e
di quegli uomini che hanno pagato con il carcere e con la
propria vita il sogno di dare ad altri la libertà perduta.
Quelle formazioni che hanno fatto crescere l’Italia e gli
italiani, che hanno portato il nostro Paese a trasformarsi
da una comunità sconfitta a una delle nazioni che siedono a
pieno titolo al tavolo dei grandi della Terra: quanta strada
è stata fatta, da quando Alcide De Gasperi, alla Conferenza
di Pace di Parigi, si rivolgeva al mondo che lo ascoltava
dicendo: “Tutto, tranne la vostra personale cortesia, è
contro di me”. Quelle formazioni che hanno combattuto il
terrorismo e l’hanno sconfitto.
Ma il Partito Democratico non è la pura conclusione di un
cammino. Se lo fosse, o se si raccontasse così,
inchioderebbe se stesso al passato.
Invece, ciò di cui l’Italia ha bisogno è un partito del
nuovo millennio. Una forza del cambiamento, libera da
ideologismi, libera dall’obbligo di apparire, di volta in
volta, moderata o estremista per legittimare o cancellare la
propria storia. Un partito che non nasce dal nulla, e
insieme un partito del tutto nuovo.
E’ quello a cui ha pensato, a cui ha lavorato, per cui si è
speso con coerenza e determinazione il fondatore dell’Ulivo,
Romano Prodi.
Il Partito democratico, un partito aperto che si propone,
perché vuole e ne ha bisogno, di affascinare quei milioni di
italiani che credono nei valori dell’innovazione, del
talento, del merito, delle pari opportunità. Quei milioni di
italiani che nelle imprese, negli uffici e nelle fabbriche
dove lavorano, nelle scuole dove insegnano, sentono di voler
fare qualcosa per il loro Paese, per i loro figli. Quei
milioni di italiani che si impegnano nel volontariato, che
fanno vivere esperienze quotidiane e concrete di
solidarietà. Quei milioni di italiani che trovano la
politica chiusa, e che se provano ad avvicinarsi ad essa è
più facile che si imbattano nella richiesta di aderire ad
una corrente o ad un gruppo di potere, piuttosto che a
un’idea, ad un progetto.
Sono convinto che il 14 ottobre sarà un giorno importante
per la democrazia italiana. Nasce, in forma nuova, un
partito nuovo. Nasce consentendo a chiunque creda in questo
progetto di iscriversi, naturalmente e direttamente, e di
candidarsi. Associazioni e gruppi, comitati e movimenti,
singole persone potranno, nello stesso momento, formare un
nuovo partito e decidere gli organi dirigenti e il leader
nazionale.
E’ un fatto mai accaduto prima. E’ stato sempre più facile
che nuovi partiti nascessero da scissioni o da proiezioni
personali di leader carismatici.
Nel Partito democratico ognuno sarà e dovrà essere, fin dal
primo momento, alla stessa stregua dell’altro. Per questo
abbiamo voluto il principio “una testa, un voto”.
Ds e Margherita, e per primi Piero Fassino e Francesco
Rutelli che hanno saputo guidarli all’appuntamento decisivo,
insieme a Romano Prodi che non ha mai smesso di crederci e
di lavorare per questo, hanno avuto l’enorme merito di
cogliere quella che era davvero l’ultima occasione, hanno
avuto il grande coraggio di accettare la sfida. Di mettere
in gioco se stessi, con una generosità che non ha precedenti
in una lunga storia politica abituata alle separazioni più
che agli incontri, alla valutazione del tornaconto di parte
più che degli interessi generali. Le forze politiche che
hanno deciso con i loro congressi di andare oltre se stesse,
hanno compiuto una scelta che resterà nella storia politica
del Paese. Il mio pensiero, in questo momento, è rivolto al
coraggio e alla passione politica di tanti italiani che in
questi anni hanno tenuto vive le idee della sinistra e dei
democratici.
Unire le culture e le forze riformiste del nostro Paese.
Superare la parzialità e l’insufficienza di ognuna di esse,
di ognuno di noi. Dar vita a una forza plurale attraverso
non il semplice accostamento, ma una creazione nuova. Far
nascere, finalmente, il Partito democratico, la grande forza
riformista che l’Italia non ha mai avuto.
Il cammino iniziò nel 1995, per iniziativa di Romano Prodi.
Cominciò facendo nascere, in tutta Italia, comitati di
cittadini. Comitati che univano le forze politiche e la
società civile. Così vincemmo elezioni che sembravano
perdute e così governammo l’Italia assumendoci
responsabilità alte e difficili. Così raggiungemmo
l’obiettivo dell’Europa. E non posso, qui, non rendere
omaggio a un grande artefice di quel cammino, ad un
protagonista della vita del Paese e delle nostre
istituzioni: Carlo Azeglio Ciampi.
In quegli anni assumemmo anche, con Massimo D’Alema, il
compito di interpretare un ruolo attivo dell’Italia nei
momenti più aspri delle violazioni dei diritti umani nei
Balcani. Un’Italia che non voltava lo sguardo dall’altra
parte. Un’Italia che accettava e sosteneva la lotta,
riuscita, per sconfiggere la logica della superiorità etnica
che stava riportando il cuore dell’Europa nel baratro delle
fosse comuni. Per sostenere che la pace, dove non c’è, non
può essere difesa, ma va ricostruita. Dalla comunità
internazionale, lasciando da parte inerzie colpevoli e
presunzioni di unilateralismo. Ponendosi agli antipodi di
quella aberrazione concettuale che è la “guerra preventiva”
e di quella follia che è stato l’intervento in Iraq.
Personalmente ho creduto alla prospettiva del Partito
democratico anche quando pareva difficile, quando era
considerata lontana e impossibile. Mi sembrava che con
l’abbattimento del Muro, con la vittoria della libertà sulle
dittature comuniste, potesse aprirsi un tempo nuovo. Un
tempo di libertà, un tempo di ricerca fuori dai recinti
ideologici, un tempo di curiosità intellettuale e di
incontro con l’altro. Un tempo di ponti e non più di fili
spinati.
Mi sembrava che si aprisse la possibilità di costruire un
campo ampio e pluralista, capace di comprendere chi pensava
che con la fine degli “ismi” non fosse finito il bisogno di
giustizia sociale, di riscatto degli ultimi, di difesa dei
diritti umani e civili. Il bisogno di una sinistra moderna e
innovativa, per chi ad essa sentiva di appartenere e vedeva
aprirsi opportunità inedite per rispondere, in modo nuovo,
ai propri compiti di sempre.
Ora, dopo un percorso inevitabilmente travagliato, questo
sogno si sta realizzando, e si sta facendo strada, credo non
solo in Italia, l’idea che occorra far vivere un nuovo campo
del pensiero democratico, delle idee di libertà, di
giustizia sociale e di innovazione.
L’Europa è andata a destra, in questi anni, perché la
sinistra è apparsa imprigionata, salvo eccezioni, in schemi
che l’hanno fatta apparire vecchia e conservatrice,
ideologica e chiusa. Ad una società in movimento, veloce,
portatrice di domande e bisogni del tutto inediti, si è
risposto con la logica dei “blocchi sociali” e della pura
tutela di conquiste la cui difesa immobile finiva con il
privare di diritti fondamentali altri pezzi di società.
Il Partito democratico dovrà saper corrispondere alle nuove
domande. Al bisogno di libertà e di fluidità sociale di ceti
sempre più mobili, coniugando queste esigenze con la ragione
della sua stessa esistenza, e cioè la costruzione di una
società in cui le capacità di ciascuno possano essere messe
alla prova indipendentemente dalle condizioni di partenza.
Di una società che “si prenda carico”, che non sia cinica o
egoista, che si ponga il problema che l’Istat ci ha appena
detto essere intatto: la distanza tra chi sta molto bene e
chi sta molto male, in Italia, non accenna a diminuire.
Una società dove la precarietà non sia la regola, dove non
sia l’incertezza a segnare, a ferire, la vita delle persone.
E’ la precarietà soprattutto dei giovani, dei nostri
ragazzi, delle nostre ragazze. In un tempo fantastico della
vita viene chiesto loro solo di “aspettare”. Aspettare di
avere un lavoro certo, un mutuo per la casa e, con questi,
la possibilità di mettere su famiglia e avere dei figli. La
vita non può essere saltuaria. La vita non può essere
part-time. Un imprenditore può assumere così, all’inizio, ma
poi spetta alla comunità rendere certo l’incerto, per il
ragazzo e per l’impresa.
E’ la lotta alla precarietà, la grande frontiera che il
Partito democratico ha davanti a sé.
Io qui oggi parlo non da uomo di partito e neanche da uomo
di parte. Parlo da italiano.
Da persona che ama il suo Paese e pensa che il destino
dell’Italia venga davvero prima di ogni altra ragione o
considerazione particolare.
Guardo il mio Paese e se vedo segni di profondi cambiamenti,
vedo anche indizi di un declino possibile: la precarietà,
appunto. E poi l’invecchiamento della popolazione, la scarsa
istruzione, la debolezza della ricerca, l’inefficienza di
molti servizi collettivi, un sistema fiscale in cui
convivono sacche di evasione ed una pressione troppo alta.
Vedo la tendenza all’illegalità diffusa, a rifugiarsi in
difese corporative o in settori di rendita, a difendere con
le unghie e con i denti grandi e piccoli privilegi, a
evitare ogni possibile apertura alla concorrenza.
E nella nostra società, a fianco di una grande ricchezza a
volte nascosta in termini di “capitale sociale”, sento
esserci uno stato d’animo fatto di smarrimento, di
stanchezza, di pessimismo, persino di forme di intolleranza,
di incattivimento, di omofobia, di diffidenza e chiusura
verso tutto ciò che appare estraneo, diverso.
Sono tutti segni del rischio di declino segnalato in un bel
saggio da Michele Salvati, che qui, in questo momento,
vorrei ricordare insieme a Pietro Scoppola e ad altri come
coloro che hanno stimolato con più determinazione e coerenza
la nascita di questo partito nuovo.
L’Italia ha bisogno di crescita. Il governo Prodi sta
lavorando per questo, e le cifre, i risultati, stanno
confortando lo sforzo e le scelte fatte. In una situazione
di straordinaria difficoltà e con una eredità pesante sulle
spalle, in un anno il governo ha portato avanti una grande
opera di risanamento finanziario che oggi fa rispettare
all’Italia i parametri europei, ha rotto un lungo
immobilismo con le liberalizzazioni e l’apertura dei
mercati, ha restituito credibilità all’Italia sia in sede
politico-istituzionale che in sede economica.
E sia chiaro che il primo compito del nascente Partito
democratico è il pieno, coerente e deciso sostegno
all’azione del Governo Prodi, al cui successo sono legate
molte delle prospettive dei democratici.
L’Italia deve crescere, deve crescere e investire sulla sua
competitività, sul talento e sulla creatività dei suoi ceti
produttivi, sull’unicità della sua bellezza e della sua
cultura. La cultura, il nostro patrimonio ambientale,
monumentale, artistico: è qualcosa che certo non teme
delocalizzazioni, che è legato alla nostra storia e al
nostro territorio, che è una delle nostre più grandi
risorse, un elemento della nostra identità e della nostra
forza nel mondo.
Crescere e competere è possibile, si è dimostrato. Il
sistema bancario italiano non è più quella frammentazione di
soggetti che è stato per molto tempo. Oggi banche e
industrie nazionali acquistano, conquistano ed entrano a far
parte di reti e gruppi europei. La nazionalità non si
difende con le barriere, ma con una maggiore competitività,
con un’ampia disponibilità all’innovazione, con la capacità
del sistema Paese di promuovere e di accompagnare.
Penso ad esempio alle medie imprese. Il Paese vive di
questo. Sono il cuore dell’Italia che produce, a cominciare
dal Nord, anche perché ciascuna di esse porta con sé nella
competizione globale un gran numero di micro-imprese. Stanno
creando sviluppo, sono una delle carte più alte che abbiamo
in mano per raggiungere possibili futuri successi. Vanno
sostenute, vanno aiutate a diventare grandi, a non cadere in
una spirale esclusivamente finanziaria, a spingere verso
l’innovazione.
E’ più di una scelta. Deve essere nella natura del Partito
democratico, fare questo. Dobbiamo saperlo: senza crescita,
gli obiettivi di una grande forza dell’equità e delle
opportunità sono destinati a soccombere.
La battaglia da sostenere, diceva Olof Palme, “non è contro
la ricchezza, è contro la povertà”. Ricordiamole sempre,
tutte e due le cose.
Superiamo allora gli odi, i rancori e le divisioni che
impediscono di guardare con lucidità alla situazione
economica. La ripresa economica non è né di destra né di
sinistra: è un bene per tutto il Paese, e tutti abbiamo il
dovere di fare ciò che è necessario per prolungarla,
rafforzarla, estenderla ai settori e ai territori che ancora
non l’hanno agganciata. Un duraturo e moderno sviluppo
economico non si ottiene se ciascun soggetto, ciascuna
impresa, ciascuna categoria, si rinchiude in sé stessa come
una monade isolata dal contesto esterno. Non si fa sviluppo
con l’egoismo. E nemmeno con l’egoismo nazionale.
Ogni nostalgia nazionalistica è del tutto anacronistica. In
un’Europa debole e divisa, nessuno Stato nazionale, grande o
piccolo che sia, è in grado di assicurare ai suoi cittadini
prosperità, sicurezza, libertà, pace. E’ solo l’Unione, che
non cancella identità e culture nazionali, che può riuscire
a far questo. Può riuscire solo un’Europa politica e
democratica, che abbia più peso e più responsabilità, che
segua il principio guida fissato all’inizio dell’avventura
europea, quello della limitazione delle sovranità nazionali.
L’azione che il governo italiano sta portando avanti, il
ruolo che lo stesso Presidente Napolitano svolge, sono la
prova di quanto sia importante che i Paesi più convintamente
europeisti, come il nostro, non lascino che l’Unione venga
sospinta al largo dal vento dell’euroscetticismo, che in
questo momento soffia forte. Che non rinuncino all’idea di
far procedere speditamente l’Europa con il principio della
doppia maggioranza e con lo strumento della cooperazione
rafforzata. L’Europa ha bisogno di un’Italia stabile, forte,
che cresce.
La nuova Italia nasce dalla riscrittura di almeno quattro
grandi capitoli della nostra vicenda nazionale: ambiente,
nuovo patto fra le generazioni, formazione e sicurezza.
1) I mutamenti climatici sono il primo banco di prova di
questa vera e propria sfida. Dobbiamo convincerci tutti che
l’aumento dell’effetto serra causato dal modo tradizionale
di produrre e consumare energia non è un problema di
astratta e accademica ecologia. I cambiamenti del clima sono
ormai un drammatico dato di fatto: fermarli non è solo un
dovere etico verso le future generazioni, è un interesse
tremendamente concreto di noi contemporanei. In cima alle
priorità della politica e dell’azione pubblica deve stare il
futuro ambientale del nostro Paese e dell’intero pianeta.
Affrontare i cambiamenti climatici. Realizzare gli obiettivi
di Kyoto, e i successivi che sarà necessario darsi per
ridurre le emissioni. Potenziare le azioni di risparmio
energetico. Espandere l’uso delle fonti rinnovabili.
Investire in dosi massicce sulle infrastrutture e sulle
tecnologie per la mobilità ecosostenibile. Mettere
l’apparato industriale e di ricerca italiano in linea con
quelli dei paesi che prima di noi hanno investito sulle
nuove tecnologie per l’ambiente.
La strada è quella indicata dai tre “20%” fissati come
obiettivo al 2020 dall’Unione Europea: +20% di fonti
rinnovabili, -20% di consumi energetici, -20% di emissioni
di gas serra. Che vuol dire consumare molta meno energia per
ogni euro di Pil prodotto, diffondere l’uso dell’energia
solare ed eolica, promuovere il risparmio energetico
nell’industria, nei trasporti, nei consumi civili.
L’Italia deve giocare da protagonista questa partita
recuperando il terreno perduto, oppure non solo avremo
mancato di dare il contributo che ci tocca a fermare i
mutamenti climatici, ma ci ritroveremo più arretrati, meno
dinamici e competitivi degli altri grandi paesi europei.
Anche in termini di investimenti, la riconversione
ambientale del Paese può diventare un traino per l’intera
economia, come è stato in passato per il settore delle
telecomunicazioni. Per farlo, si può utilizzare anche il
sistema dei prezzi e del mercato, per favorire una grande
allocazione di risorse a favore delle politiche ambientali.
Si può pensare ad esempio a tasse di possesso
automobilistico legate alla qualità delle emissioni, alla
detassazione degli investimenti in ricerca e sviluppo
ambientale, alla previsione di inasprimenti fiscali per
tutti coloro che si sottraggono alle sfide dell’ecocompatibilità.
Quello a cui pensiamo è l’ambientalismo che proponendosi di
diventare politica generale, informatrice di ogni scelta,
rifiuta la logica del no a tutto. Non si può dire no
all’alta velocità se poi l’alternativa è il traffico che
inquina e la qualità della vita che peggiora perché per
spostarsi ci vuole il doppio del tempo e il doppio dei
consumi, il doppio dell’energia. Non si può dire di no al
ciclo di smaltimento dei rifiuti moderno ed ecologicamente
compatibile e lasciare che l’unica l’alternativa siano
discariche a cielo aperto ed aria irrespirabile e nociva.
Quello a cui pensiamo è l’ambientalismo dei sì. Sì a
utilizzare le immense possibilità della tecnologia per
difendere la natura. L’ambientalismo è l’unico campo in cui
l’obiettivo più radicale è conservare: conservare un
equilibrio naturale. Ma è anche l’unico campo in cui l’unico
modo per conservare è innovare: dal ciclo di smaltimento dei
rifiuti, appunto, alla possibilità di muoversi usando
infrastrutture su ferro; dall’uso dell’energia solare
all’idrogeno. Sono le conquiste scientifiche e tecnologiche
a consentire, oggi, di difendere l’aria, l’acqua, la Terra.
2) Un nuovo patto generazionale. Per fortuna – o meglio, per
merito di quello stato sociale che i nostri padri hanno
costruito per far fronte al rischio della malattia e della
vecchiaia – l’età media si allunga. Nella sua recente
Relazione il governatore Mario Draghi lo ha sottolineato con
estrema chiarezza: nel 2005 vi erano 42 ultrasessantenni per
ogni 100 cittadini. Ve ne saranno 53 nel 2020 e ben 83 nel
2040.
È una buona notizia. Non è una disgrazia che ci cade tra
capo e collo. Una disgrazia la può diventare solo se noi
saremo conservatori, pretendendo di fare fronte alle nuove
insicurezze e ai nuovi problemi – almeno in parte connessi
ai nostri stessi successi – con le vecchie ricette.
Pensate alla portata straordinaria dell’innovazione
introdotta più di trent’anni fa nella previdenza pubblica
dall’adozione del sistema cosiddetto a ripartizione, che
sostituiva quello a capitalizzazione, nel quale ognuno
versava i contributi “per sé”: io lavoratore in attività
pago oggi i miei contributi, che vengono usati per pagare le
pensioni ai pensionati di oggi, in nome del patto, garantito
dallo Stato, che prevede che i lavoratori attivi di domani
pagheranno a loro volta la mia pensione... e così via, in un
sempre rinnovato rapporto di solidarietà tra le generazioni.
È solo un esempio di metodo, che faccio per dimostrare come
il dinamismo economico e sociale – ed un più elevato grado
di giustizia sociale – possa essere sorretto da un patto tra
generazioni che sappia ispirarsi ai valori eterni di
solidarietà ed eguaglianza, ma anche modificare
profondamente gli strumenti e le politiche per attuarli.
È su quest’ultimo terreno che abbiamo accumulato un ritardo.
Perché non siamo stati sempre fedeli interpreti di quel
principio di distinzione tra destra e sinistra che enunciò
tanti anni fa il più giovane vecchio della sinistra
italiana, Vittorio Foa, quando rispose: destra e sinistra?
La prima, è figlia legittima degli interessi egoistici
dell’oggi. La seconda, è figlia legittima degli interessi di
quelli che non sono ancora nati.
Ecco. Non si può dire meglio. Ma dobbiamo poi essere
conseguenti, anche – mi si passi la pedanteria – nell’uso
del nostro tempo: da molti anni dedichiamo almeno un’ora al
giorno del nostro tempo a discutere se si deve andare in
pensione a 57, a 58 o a 60 anni, ma solo qualche secondo a
progettare una risposta al fatto che continua ad aumentare
il numero dei bambini che vivono in famiglie al di sotto
della linea di povertà relativa; lo stesso esiguo tempo che
dedichiamo a cercare soluzioni per le famiglie che, dovendo
improvvisamente fare fronte alla cura di un anziano non
autosufficiente, vedono la qualità della loro vita e il
livello del loro reddito precipitare verso il basso, spesso
in modo insostenibile.
Ecco quale Partito democratico io vorrei: un partito che
lavori al buon esito del confronto sull’ammorbidimento dello
“scalone”, certo, ma concentri la gran parte dei suoi sforzi
di elaborazione e di iniziativa sugli odierni fattori
fondamentali di disagio e di disuguaglianza, proprio a
partire dalle principali vittime del mancato adeguamento
dello Stato Sociale alla nuova realtà della società e
dell’economia: bambini poveri nei primi anni di vita e
persone molto anziane non autosufficienti.
Il Partito democratico che vorrei deve darsi, a questo
proposito, obiettivi anche quantitativamente verificabili,
in un orizzonte di medio-lungo periodo. Noi sappiamo che
questa mattina, in Italia, nello stesso ambito territoriale,
sono nati due bambini: uno è figlio di genitori entrambi
laureati, l’altro è figlio di genitori con diploma di scuola
media inferiore. Il primo ha sette volte le probabilità del
secondo di laurearsi: un abisso di dispari opportunità, una
immobilità sociale che è causa non ultima dello scarso
dinamismo economico.
L’insieme degli obiettivi per cui nasce il Partito
democratico potrebbe dunque riassumersi in uno solo: noi
vogliamo che, entro dieci anni, questo divario di
opportunità – di vita, di successo e di felicità – si riduca
del 30%, facendo ripartire quella mobilità sociale che,
forte dai primi anni ‘60 fino alla metà degli anni ‘70, ha
progressivamente frenato, fino ad arrestarsi del tutto.
La nostra società deve muoversi. Oggi, in una società
immobile, a pagare il prezzo più alto sono i nostri ragazzi,
che prima dei venticinque-trent’anni non entrano nel mondo
del lavoro, e che non possono più contare su quella sequenza
certa – studio, lavoro, pensione – che abbiamo conosciuto
noi. E’ come se oggi la vita dei giovani italiani fosse
scandita da un orologio sociale ormai sfasato, messo a punto
per un tempo che non c’è più.
Perché mai oggi un ragazzo non deve poter avere le garanzie,
le tutele sociali e le opportunità che esistono per i suoi
coetanei inglesi? Perché non può contare su un efficace
sistema di ammortizzatori sociali – quello verso il quale il
governo si sta incamminando – di fronte al rischio di
perdere il lavoro, di doverlo cambiare o anche solo alla
voglia di farlo? Perché in questi casi non può fare
affidamento su indennità di disoccupazione e su opportunità
di formazione utilizzabili lungo l’intero arco della vita? E
perché se vuole metter su famiglia e ha il problema della
casa non deve poter contare su un vasto insieme di
interventi che vanno dal rilancio dell’edilizia popolare,
alla sperimentazione di un nuovo housing sociale, alla messa
in campo di strumenti finanziari che sblocchino il mercato
degli affitti o di interventi che rendano disponibili con
meccanismi di mercato le tantissime abitazioni oggi vuote?
Mi ripeto, so di farlo: la lotta alla precarietà è la grande
frontiera che il Partito democratico ha davanti a sé. Non si
vince questa lotta senza riscrivere un patto generazionale
tra gli italiani. Senza spostare le ingenti risorse oggi
impegnate per far fronte agli squilibri del sistema
pensionistico verso i giovani e la loro inclusione.
Il sindacato, che nel corso della nostra storia ha più di
una volta saputo difendere i diritti e gli interessi dei
lavoratori assumendosi con coraggio responsabilità generali,
sta dimostrando, deve dimostrare, di poter essere
protagonista della scrittura di questo nuovo patto. Il
Governo, che ha saputo praticare nuovamente quel metodo
della concertazione che nel recente passato ha permesso
all’Italia di raggiungere traguardi che a prima vista
sembravano impossibili, ha iniziato a scriverne pagine
importanti. Come quella che finalmente, in queste ore, sta
portando ad un aumento delle pensioni più basse.
Altri passi dovranno seguire: azioni per l’invecchiamento
attivo, perché gli anziani esprimono tante energie non solo
per le loro famiglie, ma anche per la collettività;
flessibilità di uscita e part-time in uscita, perché deve
essere garantita ai lavoratori una vera libertà di scelta;
maggiore sicurezza sul lavoro, perché su questo ogni giorno
c’è un terribile bollettino che nega la civiltà del nostro
Paese.
C’è poi un capitolo, del patto fra le generazioni, che
dobbiamo avere il coraggio di non dimenticare. A carico di
noi tutti, ormai da vent’anni, pesa un ingente debito
pubblico, conseguenza dei conflitti sociali degli anni ’70 e
dell’irresponsabilità degli anni ’80. Anche questo,
rischiamo di trasferire alle generazioni più giovani e ai
nostri figli.
Con l’ingresso nell’euro abbiamo fatto il primo grande passo
per permettere al Paese di andare oltre, di proiettarsi
verso il futuro. Ma dobbiamo oggi progettare il passo
ulteriore. Come spiegheremmo, in caso contrario, una simile
inadempienza ai nostri figli?
Una politica finanziaria rigorosa, quindi, non è figlia
dell’ideologia, ma della necessità. La necessità di generare
risorse per abbattere gradualmente il debito pubblico.
Il cammino del risanamento delle pubbliche finanze è
ricominciato, grazie agli sforzi del Governo Prodi. Il
deficit pubblico, che aveva raggiunto il 4,4% del Pil nel
2005 scenderà al 2,3% nel 2007. Il positivo ciclo economico
ha aiutato l’azione del Governo, e dobbiamo fare ogni sforzo
per far funzionare ancora per alcuni anni il circolo
virtuoso fra crescita e risanamento. Ogni frutto aggiuntivo
che il meccanismo potrà generare dovrà poi equamente essere
utilizzato per la riduzione della pressione fiscale e per il
sostegno alle nuove politiche del patto intergenerazionale.
La pressione fiscale. So che l’artigiano, il commerciante,
il piccolo imprenditore quando è leale col fisco – e lo sono
i più – paga molto, troppo. So che trova insopportabili i
costi che deve affrontare per rispondere ai mille
adempimenti burocratici che sono la premessa del pagamento
delle tasse. So che, ad esasperarlo, è la distanza tra ciò
che paga e ciò che riceve in cambio, in termini di
infrastrutture, di efficienza della Pubblica
Amministrazione, di buon funzionamento del servizio
giustizia e sicurezza. E so infine che questo imprenditore
si trova spesso di fronte ad un'Amministrazione Finanziaria
che chiede a lui puntualità e precisione per ogni
adempimento, ma è tutto meno che puntuale e precisa quando
deve ridare al contribuente quei crediti che – specie nel
caso dell’Iva – si fanno invece attendere per anni.
Non è con gli odi di classe che si sconfigge l’evasione. E’,
al contrario, attraverso il convincimento e l’adesione ad un
comune progetto per la società. E’ attraverso la
semplificazione del sistema tributario e dei suoi
adempimenti. E’ con la trasformazione dell’amministrazione
fiscale in soggetto che offre un servizio ai cittadini e
alle imprese utilizzando condizioni il più possibile
amichevoli e poco invadenti.
Da questa consapevolezza, faccio derivare un impegno
preciso: io penso ad un Partito democratico che in tema di
lotta all’evasione fiscale bandisca dalla sua cultura
politica ogni pregiudizio classista, considerando
altrettanto esecrabili quell’imprenditore che evade, quel
pubblico dipendente che percepisce lo stipendio e non fa
quello che dovrebbe e chi offre lavoro in nero.
E poi, penso ad un Partito democratico che lavori duramente
alla riqualificazione della spesa pubblica: ogni anno, ci si
scatena in una lotta durissima per limare ai margini i
capitoli di spesa, in più o in meno, senza mai gettare lo
sguardo sulla parte più consistente della spesa, quella che
si ripete ogni anno, senza che ci si chieda se serve davvero
a qualcosa. Le pubbliche amministrazioni devono invece
giustificare l’utilità di tutte le somme che richiedono, non
solo di quelle aggiuntive: giustificare fin dal primo euro
ogni richiesta di stanziamento, valutare fino all’ultimo
euro come sono stati utilizzati i soldi dei contribuenti.
Qui c’è il nodo cruciale delle infrastrutture: hai un bell’innalzare
la produttività del lavoro in azienda, hai un bel curare
l’innovazione costante del prodotto e del processo, quando
poi il tuo competitore straniero ti batte perché la sua
merce viaggia verso i mercati ad una velocità tripla, o
quadrupla, rispetto alla tua. O quando il tuo competitore
tedesco, per ricavare quel che si può dal fallimento di un
suo creditore, in sede giudiziaria, deve aspettare meno
della metà del tempo che devi aspettare tu, qui in Italia.
Non è solo questione di soldi. Per il servizio giustizia, in
rapporto al Pil, spendiamo come gli altri partners europei.
Ma otteniamo tanto di meno.
E per le infrastrutture materiali, almeno al Nord, i soldi
si potrebbero trovare sul mercato finanziario. È questione
di riforme non fatte. Nella Legge Finanziaria per il 2007,
ad esempio, c’è un primo segnale, a proposito di
infrastrutture: l’intesa Governo centrale-Regione Lombardia,
che attribuisce il potere di decidere per le concessioni
stradali e autostradali a una società creata dalla Regione e
dall’Anas. Un primo passo verso un vero federalismo in campo
infrastrutturale. Un’esperienza che può essere estesa ad
altre Regioni, così creando le condizioni per
responsabilizzare cittadini e istituzioni, aggredire i
diritti di veto, chiamare i capitali privati a concorrere a
migliorare la dotazione infrastrutturale del Paese, con uno
schema che preveda una quota di risorse pubbliche superiore
per il Mezzogiorno.
Tutto bene, si dirà. Ma la pressione fiscale complessiva,
secondo il Partito democratico, deve diminuire o no?
Se la domanda venisse posta solo da quelli che hanno
promesso di “abolire l’Irap” e di ridurre la pressione
fiscale, che hanno governato per cinque anni e hanno
lasciato l’Irap intatta e la pressione fiscale (somma di
tutti i contributi più tutti i tributi, in rapporto al Pil)
di quasi un punto più alta di quella del 2001, non varrebbe
la pena di rispondere. Ma questo non ci esime dal dire con
chiarezza che per troppi anni la sinistra si è accomodata
nella logica del “tassa e spendi”. È nostro interesse e
dovere, dunque, dar conto della svolta che dobbiamo operare.
Parliamoci chiaro: con un volume globale del debito pubblico
quasi doppio rispetto a quello dei nostri principali
partners europei, il livello della pressione fiscale non
potrà essere drasticamente ridotto, nei prossimi anni.
Ripeto: hanno dovuto prenderne atto, nei cinque anni
trascorsi, anche quanti avevano irresponsabilmente proposto
di diminuirlo di un punto di Pil all’anno per cinque anni. È
invece assolutamente realistico prevedere una consistente
riduzione della pressione complessiva nei prossimi tre anni:
la rende possibile proprio quella stabilizzazione della
finanza pubblica che è uno dei migliori risultati di questo
primo anno di governo.
Così “aggiustato” nell’immediato futuro il livello
complessivo della pressione fiscale, dovremo finalmente
aggredire due nodi di ben altra difficoltà: l’evasione
fiscale da un lato e l’equilibrio tra le diverse forme di
imposizione dall’altro.
L’evasione è il cancro che corrode il rapporto di fiducia
tra cittadino e Stato: se il livello della pressione fiscale
italiana è ormai paragonabile a quello dei grandi paesi
dell’Europa continentale, il più elevato livello di evasione
ci dice che – sui contribuenti onesti e leali – siamo giunti
a un carico elevatissimo, da record europeo. Il rischio è
che si precipiti in un circolo vizioso: le innovazioni
legislative funzionali alla lotta all’evasione mettono nuovi
compiti burocratici e nuovi costi a carico dei contribuenti
che già pagano; altre innovazioni legislative innalzano le
aliquote o allargano le basi imponibili, mentre quelli che
evadono tutto o quasi restano al riparo dalle une e dalle
altre.
Mi chiedo se non si debba lavorare a un profondo
ripensamento di tutto questo, per entrare in una spirale
virtuosa: man mano che lo Stato abbassa le aliquote e
semplifica gli adempimenti, i contribuenti accrescono il
livello di fedeltà delle loro dichiarazioni, e la loro
recuperata fiducia nello Stato crea quel clima di condanna
sociale dell’evasione che oggi manca.
Non sto proponendo, vorrei che fosse chiaro, la flat tax,
tanto cara alla destra in Europa e nel mondo. Sto parlando
di un’iniziativa che – nel contesto di un sistema fiscale
che obbedisce al principio costituzionale della
progressività e, anzi, al fine di meglio applicarlo –
rinnovi il patto fiscale che è alla base di una ben
organizzata comunità.
Pagare meno, pagare tutti: in questi lunghi anni che ci
stanno alle spalle, questo indirizzo è stato interpretato
nel senso che solo quando tutti avranno preso a pagare
tutto, secondo le aliquote elevate oggi in vigore, solo
allora si potrà far pagare meno, cioè ridurre le aliquote,
ottenendo un gettito pari. Mi pare di poter dire che i
risultati delle diverse stagioni politiche non depongono a
favore di questa strategia. Proviamo allora ad adottarne una
che agisca contemporaneamente sui due tasti, attraverso un
approccio graduale.
Pensiamo ad esempio alla tassazione degli affitti. Oggi,
l’evasione dilaga: chi percepisce l’affitto, dovrebbe
pagarci sopra le tasse con l’aliquota marginale dell’Irpef.
Chi lo paga “in bianco”, non detrae nulla. Proviamo a fare
il contrario: aliquota del 20% sull’affitto percepito,
uguale per tutti (l’aliquota più bassa dell’Irpef è il 23%)
e significativa detrazione per chi lo paga, uscendo dal
“nero”. Nei primi anni la caduta del gettito sarebbe troppo
pesante? Cominciamo allora dalle case prese in affitto dalle
giovani coppie e dagli studenti universitari e poi, se
funziona, estendiamo la riforma a tutti gli affitti.
Quanto alle forme dell’imposizione fiscale, non c’è dubbio
che oggi esista un grave squilibrio tra pressione sulla
rendita da un lato e pressione sul lavoro e sull’impresa
dall’altro. Anche in questo caso, vorrei bandire ogni
equivoco: un ben funzionante mercato finanziario è una delle
condizioni dello sviluppo. E il mercato finanziario funziona
bene se è aperto. E, per aprirsi, non può sopportare forme
di prelievo fiscale sulle rendite incompatibili con quelle
prevalenti nell’area economico-finanziaria e monetaria di
riferimento.
Ma proprio questo è il punto: il prelievo fiscale sulla
rendita è in Italia decisamente più basso di quello medio in
Europa, così da provocare evidenti distorsioni. Cito quella
che mi pare la più clamorosa: un manager, sulle plusvalenze
delle sue stock options, paga con un’aliquota del 12,5%; un
operaio che versa il suo salario in banca paga sugli
interessi un’aliquota del 27%. Dobbiamo dunque operare per
l’armonizzazione delle aliquote di prelievo, prendendo tutte
le precauzioni, ma senza timidezze. Fra l’altro, i mercati
finanziari, a fine 2006, già hanno scontato gli effetti
dell’armonizzazione, in forza degli annunci fatti
dall’Unione in campagna elettorale.
3) Se la nostra è la società della conoscenza, l’educazione
e la formazione sono al centro di tutto. Non possiamo più
trovarci costantemente agli ultimi posti tra i paesi a
cosiddetto sviluppo avanzato, non è più accettabile che i
diplomati tra i 25 e i 64 anni, ossia nella fascia di età
dove si concentra il tasso di occupazione, siano solo il
37,5%, otto punti in meno della media Ocse. Non è possibile
che i laureati in Italia siano appena il 12% della
popolazione, poco più di uno ogni dieci italiani, la metà
della media Ocse.
Abbiamo bisogno di un piano nazionale per la scuola e
l’Università. E’ una priorità assoluta. Dobbiamo dare
credito alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi. Renderli
sicuri che alla fine del loro percorso formativo, sia nelle
scuole secondarie che nelle Università, potranno avere
accesso ad una prima esperienza di lavoro, sotto forma di
stage, di master, di apprendistato tradizionale o di alto
apprendistato. Dobbiamo offrire a tutte e tutti
un’opportunità, con meccanismi di selezione trasparenti, che
premino i più meritevoli. E valorizzare, soprattutto, il
sistema dell’istruzione tecnica e professionale, per il
quale il sistema delle imprese italiane esprime una domanda
di circa 200 mila giovani qualificati all’anno, che spesso,
e soprattutto al Nord, c’è difficoltà a reperire. Dobbiamo
attrarre studenti e docenti nelle nostre università: per
questo abbiamo bisogno di un sistema di campus universitari,
come i tre che abbiamo in cantiere a Roma, che permettano di
calmierare il mercato degli affitti e di offrire ospitalità
a costi accessibili.
E poi anche nel nostro sistema formativo c’è una “questione
meridionale”. Vorrei citare ancora il governatore Draghi, la
sua Relazione: “La bassa collocazione del nostro sistema
scolastico nelle graduatorie internazionali ha una
caratterizzazione territoriale che merita attenzione. Al Sud
i divari nei livelli di apprendimento sono significativi già
a partire dalla scuola primaria, tendono ad ampliarsi nei
gradi successivi: un quindicenne su cinque nel Mezzogiorno
versa in una condizione di ‘povertà di conoscenza’
anticamera della povertà economica. Il ritardo si amplia se
si tiene conto dei più elevati tassi di abbandono
scolastico. L’esistenza di un divario territoriale così
marcato mostra che il problema non sta solo nelle regole, ma
anche nella loro applicazione concreta”. E conclude: “Per
cambiare la scuola italiana si deve muovere dalla
constatazione dei circoli viziosi che la penalizzano,
disincentivano gli insegnanti, tradiscono le responsabilità
della scuola pubblica”.
4) La sicurezza. Cominciamo con l’essere chiari: nessuno
scrolli le spalle o definisca razzista un padre che si
preoccupa di una figlia in un quartiere che non riconosce
più. La sicurezza è un diritto fondamentale che non ha
colore politico, che non è né di destra né di sinistra. Chi
governa ha il dovere di fare di tutto per garantirla.
Avendo ben presente il presupposto: integrazione e legalità,
multiculturalità e sicurezza, vivono insieme. Insieme
stanno. Insieme cadono. Chi viene da lontano per scappare
dalla fame e dalla guerra non può che essere almeno accolto
da un Occidente egoista e avido. Ma per chi ruba ai
cittadini quel bene prezioso che è la serenità c’è solo una
risposta, ed è la severità e la fermezza con cui pretendere
che rispetti la legge e che paghi il giusto prezzo quando
questo non accade, quale che sia la sua nazionalità. Chi
viene qui per fare male agli altri o per sfruttare donne o
bambini deve essere assicurato alla giustizia, senza se e
senza ma.
Dalla mia esperienza di questi anni ho imparato che la
visione nazionale di un problema fondamentale come questo
diventa concreta quando viene calata nella realtà del
territorio. Quando la cooperazione forte tra governo e
amministratori è una scelta non episodica ma strategica.
Perché noi continuiamo a basarci su un modello che è sempre
lo stesso da quarant’anni, mentre nel frattempo l’Italia è
cambiata, sono cambiati gli insediamenti urbani e il
territorio da governare è diventato più ampio ed eterogeneo,
sono cambiati gli stili di vita delle persone.
Le politiche sociali, i processi di inclusione, sono
importanti, lo sappiamo bene. Ma insieme, e siamo noi a
poter coniugare le due esigenze, dobbiamo pensare ad un modo
nuovo di assicurare e aumentare la presenza dello Stato sul
territorio. C’è un problema di efficacia e c’è un problema
di rassicurazione, perché ci sono i reati che tolgono la
sicurezza reale e c’è la percezione dell’insicurezza. Anche
questa merita risposte.
Più gente per strada, di questo c’è bisogno. Pensiamo solo a
quale salto nei livelli di tutela della sicurezza delle
persone e delle imprese si otterrebbe se tutto il personale
che veste una divisa delle forze dell’ordine venisse
liberato, tramite un processo di mobilità, dalle attività
amministrative per essere impiegato a presidio del
territorio, laddove i cittadini onesti – e anche i
delinquenti – possano “sentirne” la presenza fisica.
Insomma, una nuova Italia richiede un cambiamento profondo,
in molti casi radicale.
Il Partito democratico, la sua stessa nascita, può
contribuire ad accelerare, a introdurre un forte elemento di
coesione politica e programmatica.
Il Partito Democratico, ognuno lo intende, serve anche a
“fissare” i riformisti al principio del bipolarismo e della
alternanza. Quel principio che in varie forme, e con vari
modelli elettorali, vive in ogni paese europeo. Bipolarismo,
in alcuni casi bipartitismo, appaiono il modo in cui, per
virtù politiche e/o istituzionali, si succedono al governo
forze diverse, in un clima di stabilità e di rappresentanza
non frammentata.
Le elezioni legislative francesi sono state un modello di
funzionamento istituzionale perfetto: i cittadini hanno
scelto con il loro voto e hanno selezionato, in due turni,
un Parlamento compatto in un contesto democratico
equilibrato. E così per le presidenziali: chi ha perduto ha
riconosciuto pochi minuti dopo le prime proiezioni il
successo del vincitore. Il Presidente eletto ha invitato
all’Eliseo il contendente per discutere i lineamenti della
posizione che la Francia avrebbe portato al Consiglio
europeo. Tra cinque anni i cittadini misureranno se gli
impegni presi dalla maggioranza e dall’opposizione sono
stati rispettati.
Vediamo, nel caso francese, due aspetti. Uno è il
funzionamento della legge elettorale e dei meccanismi
istituzionali. L’altro è il senso di responsabilità
nazionale delle forze politiche. Da noi tutto è
frammentazione. Abbiamo, in questa legislatura, ben
quattordici gruppi parlamentari. I partiti di governo sono
dieci, più o meno altrettante sono le formazioni politiche
che stanno all’opposizione. Ci vuole davvero poco per vedere
quanto la legge elettorale irresponsabilmente approvata
nella scorsa legislatura abbia favorito l’ingovernabilità
del Paese.
Non è possibile, voglio dirlo con chiarezza, che in un
sistema democratico moderno un senatore possa avere nelle
mani il destino di una legislatura. Non è possibile che il
suo voto possa contare più del voto di milioni di persone
chiamate a scegliere chi governa.
La democrazia invece è proprio questo: “decisione”. E’
ascolto, è condivisione. Ma alla fine, è decisione.
Un governo che abbia i poteri per essere tale, un Parlamento
che controlli severamente e indirizzi l’azione
dell’esecutivo, ma che non pretenda di essere, esso stesso,
governo assembleare.
Nei Comuni e nelle Regioni c’è stata, in questi anni,
stabilità. E c’è stato cambiamento. I Sindaci rispondono ai
cittadini e non, come era un tempo, alle correnti dei
partiti. E i poteri locali sono divenuti un motore
prepotente dello sviluppo italiano e dell’incremento del Pil.
Con una costante crescita, specie per i Comuni, nel
gradimento dei cittadini verso le istituzioni.
La legge elettorale deve essere cambiata. Si trovi un
meccanismo, non bisogna guardare lontano, che garantisca
quattro obiettivi: contrasto della frammentazione, stabilità
di legislatura, rappresentatività del pluralismo, scelta del
governo da parte dei cittadini.
La legge è urgente e necessaria. E’ una condizione della
vita democratica del Paese. Solo chi non è responsabile può
pensare di trascinare l’Italia verso altre elezioni, che con
questo sistema produrrebbero solo altra instabilità e altro
caos. Cambiare, in un confronto parlamentare serio e aperto.
E se il Parlamento non riesce a farlo sarà allora il
referendum a spingere, sulla base dell’abrogazione, verso la
definizione di un nuovo sistema.
L’Italia ha bisogno di stabilità. Quella stabilità che è
stata tanto più vicina, in quest’ultimo decennio, tanto più
ci siamo incamminati lungo la strada del bipolarismo,
iniziata con la riforma in senso maggioritario del vecchio
sistema elettorale proporzionale. Quello, sarebbe bene
ricordarlo sempre, delle crisi di governo pressoché continue
e degli esecutivi non scelti dai cittadini con il loro voto,
ma formati dopo lunghe e a volte non troppo chiare
trattative che duravano settimane, se non mesi.
La possibilità della scelta: questo è il principio da
affermare e da far vivere. Questa è la chiave da consegnare
all’Italia.
Agli italiani, che devono poter scegliere in modo lineare,
pieno e consapevole chi dovrà governarli per cinque anni. A
chi governa, che deve avere gli strumenti necessari per
guidare il Paese, per attuare il programma con il quale è
stato eletto, per decidere.
Questa è la forza della democrazia, di una “democrazia che
decide”. Delega e responsabilità. Equilibrio tra potere di
decisione e potere di controllo. Con lo scettro affidato a
coloro ai quali spetta in democrazia: i cittadini, il popolo
che vota e che dopo cinque anni approverà o boccerà
l’operato di chi li ha governati.
Ma la crisi del nostro sistema democratico, più volte
richiamata dal Presidente Napolitano con l’amore per le
istituzioni e il Paese che tutti gli riconoscono, non è solo
legata alla legge elettorale.
E’ il sistema istituzionale, che in molti aspetti, deve
cambiare. E’ ormai matura, sulla spinta della sollecitazione
dell’opinione pubblica e della consapevolezza degli stessi
gruppi parlamentari, una profonda riforma della politica.
Perché se i parlamentari eletti direttamente sono 577 in
Francia, 646 in Gran Bretagna, 614 in Germania e 435 negli
Stati Uniti, in Italia ci devono essere mille tra deputati e
senatori? Perché una legge deve passare, per essere
approvata, una o due volte in due rami del Parlamento?
Perché il governo non può vedere approvate o respinte le sue
proposte di legge in un tempo certo? Perché il Presidente
del Consiglio non ha il diritto di proporre lui al
Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei
ministri? Perché non ridurre, a tutti i livelli, la
numerosità di tutti gli organismi elettivi? Perché, una
volta sviluppato tutto il necessario confronto nelle
Commissioni, non approvare la legge finanziaria senza lo
stillicidio degli emendamenti in Aula?
Il Parlamento sta andando in questa direzione. Ma bisogna
fare presto. La risposta alle domande retoriche che ho posto
è una sola, purtroppo. Perché molti, in questo Paese,
vogliono una democrazia debole, poteri istituzionali
fragili, una politica al tempo stesso flebile e invadente.
Non possono passare anni per una decisione. Non possono
essere decine di organismi a dare pareri, mettere veti,
condizionare scelte. Non ci possono essere decine di
istituzioni da cui un cittadino, un imprenditore o un
amministratore deve passare prima di vedere realizzato un
progetto.
L’Italia è diventata il Paese in cui tutti, a tutti i
livelli, hanno il diritto di mettere veti e nessuno ha il
diritto di decidere.
Più è lunga e sfilacciata la filiera delle decisioni, più si
fa strada il fenomeno, che temo riemergere, della
corruzione. Uno Stato semplice, non barocco, è uno Stato
moderno. Quello che la storia e la pratica ci consegnano è
invece una eredità confusa e vecchia. Se di fronte ad ogni
problema urgente gli amministratori e i cittadini sono
costretti a chiedere poteri straordinari, è perché
evidentemente quelli ordinari non funzionano.
E torniamo al tema: senza poteri democratici funzionanti, è
tutto il sistema che si allenta, si smaglia, apre la strada
a poteri illegittimi. Un Paese può perdere la sua democrazia
per “eccesso” di decisione, ma può anche perderla per
“difetto” di decisione. Gli italiani vogliono che il governo
che guida il Paese possa assumere su di sé decisioni e
responsabilità, e che e ne risponda. E vogliono sceglierlo.
Come in altre democrazie, che funzionano.
E’ così, con un’alta capacità di risposta, che si combatterà
l’antipolitica. Occorre qui distinguere: un cittadino che
critica sprechi e irrazionalità, che chiede alla politica
sobrietà e rigore, non coltiva l’antipolitica, dice qualcosa
di giusto. Come qualcosa di giusto dice chi vuole siano
sempre rispettati i paletti tra sfera della politica e
autonomia della società. Chi invece indica
qualunquisticamente la politica come il nemico, chi soffia
demagogicamente sul fuoco dell’insoddisfazione, ha il dovere
di dire cosa si dovrebbe sostituire alla politica e alle
istituzioni.
E lasciatemi dire: fa sorridere amaramente che chi ha
governato l’Italia per complessivi sei anni cavalchi
l’antipolitica con toni populistici quasi fosse un passante
qualsiasi, facendo finta di non esserci mai stato.
Io credo nella insostituibilità della politica come
strumento di regolazione, come capacità di evitare che una
società smarrisca il senso di sé e rifluisca in ogni
possibile forma di particolarismo. Ma la politica, per far
questo, deve sapere mostrare il suo volto migliore. Bisogna
stare meno nei talk-show televisivi, non pensare di avere
ogni giorno una cosa speciale da dire. Bisogna che le
leadership politiche si misurino con la vita reale dei
cittadini. Bisogna che il potere sia sobrio, che rinunci più
che chiedere, che non si faccia corpo separato, lontano.
Penso al senso dello Stato e all’impegno civile di uomini
come Massimo D’Antona e come Marco Biagi, solo e senza
scorta.
Penso che spetterà al Partito democratico presentare in
Parlamento una organica legge per la riforma degli istituti
della politica. Una legge per la politica. Per favorire il
carattere necessariamente lieve e ambizioso che la politica
moderna deve assumere.
Una politica che sappia condividere: la vita dei cittadini,
la quotidianità di persone che iniziano la loro giornata
senza leggere gli editoriali dei giornali né domandandosi a
quale dei vecchi partiti italiani si sentono legati.
No, non fanno e non si chiedono questo, l’anziana che fatica
a pagare l’ultima bolletta del mese con quello che resta
della sua pensione, l’operaio che deve mettere insieme un
lavoro che non lo soddisfa e il dovere di mandare avanti una
famiglia, l’imprenditore che sbatte la testa contro la
burocrazia o l’artigiano e il commerciante che ha il dovere
di pagare le tasse ma ha anche il diritto di avere uno Stato
che gli renda più semplice la vita e lo consideri non un
peso ma una risorsa.
Una politica sincera, pragmatica, ancorata ai suoi valori,
non ideologica. E che contribuisca a voltare pagina in
Italia.
La politica è, e deve essere, contrapposizione aperta, netta
e trasparente tra programmi e soluzioni diverse. Ma c’è un
confine di sobrietà e di rispetto dei problemi reali delle
persone che non può consentire di proseguire oltre su una
strada sbagliata.
Sbagliato è che ogni nuovo governo si senta in diritto di
smantellare sempre e comunque tutte le leggi varate dal
governo precedente e in particolare le regole più
importanti, quelle da cui dipende il funzionamento e lo
sviluppo del Paese. Non è possibile che tutto ciò che è
stato fatto da chi c’era prima di te, se era dello
schieramento avverso, sia sempre sbagliato. E con questo
voglio dire, per essere chiaro, che una cosa sono le leggi
“ad personam”, che vanno cancellate, e una cosa è ad esempio
una legge come quella sul risparmio, che non è stata
negativa.
Basta. Dobbiamo farla finita con lo scontro feroce e con i
veleni, con le polemiche che diventano insulto. Il Paese di
tutto questo è stanco, non ne può più. E da tempo non perde
occasione per dirlo. Per dire che non vuole una politica
avvolta dall’odio, dove l’altro è un nemico, dove i problemi
reali finiscono in un angolo o vengono affrontati con
soluzioni temporanee.
Voltiamo pagina. Gettiamoci alle spalle un modo di intendere
i rapporti tra maggioranza e opposizione che non porta a
nulla. A nulla, se non a far male all’Italia.
Voltiamo pagina. La politica può essere diversa. Non c’è
niente, tranne la nostra volontà, che impedisca la
costruzione di un modo di intendere i rapporti basato sulla
civiltà, sul riconoscersi reciprocamente.
Mi è stato più volte dato atto di non aver mai partecipato a
questa degenerazione del confronto. In ogni caso continuerò
così, anche unilateralmente. Continuerò a pensare che non
c’è un titolo di giornale che valga più del rispetto di un
avversario. Non una battuta volgare che possa essere
accettata come normale da un paese non volgare.
Voltiamo pagina. Facciamo in modo, per la prima volta da
quindici anni, che non si formino più schieramenti “contro”
qualcuno, ma schieramenti “per” affrontare le grandi sfide
dell’Italia moderna.
Che la nostra diventi la società del rispetto,
dell’apertura, del dialogo. Si può essere in disaccordo
senza essere nemici. Si può far vivere una politica in cui
si ammetta serenamente la possibilità che l’altra parte
possa anche aver ragione. Una politica in cui ci si scontri
duramente su programmi e valori, ma capace di convivenza e
rispetto istituzionale. Nessuno occupi, mai più, il
Parlamento repubblicano sventolando giornali e striscioni.
Sei anni come Sindaco di Roma mi hanno convinto, e credo di
poter dire abbiano convinto soprattutto i cittadini romani,
al di là delle naturali e legittime convinzioni di ognuno,
che è possibile confrontarsi in modo civile e trasparente
senza che nulla venga tolto alle rispettive idee. Avendo
come unico ed esclusivo interesse il bene della propria
comunità, la qualità della vita delle persone.
E’ con questo stesso spirito che continuerò a tenere fede
all’impegno assunto con i miei concittadini. Con la stessa
passione che mi ha fatto stare ogni giorno in mezzo a loro,
tra i loro problemi e le loro speranze: un’esperienza unica
di ascolto e di condivisione, che proseguirà e che mi
accompagnerà sempre in ogni momento, in ogni scelta, in ogni
decisione. Al patto che ho stretto con Roma non posso e non
voglio venir meno, e d’altro canto l’amore per la mia città,
per le mie radici, per il lavoro che sto portando avanti, mi
impedisce di fare diversamente.
Il Partito democratico che immagino e che spero si rivolge a
tutti gli italiani.
L’Italia deve recuperare in pieno, e il Partito democratico
anche a questo deve servire, il senso di un’appartenenza
comune, il senso profondo di essere una nazione.
Una nazione unita. Un solo popolo. Una sola comunità.
Non ci sono due Italie, c’è un’Italia sola.
Non c’è un “noi” e non ci sono “gli altri”, quando si parla
degli italiani.
E non ci può essere “noi” e “gli altri” nemmeno quando si
tratta del rapporto tra fede e laicità. La cosa peggiore che
il Paese potrebbe avere in sorte è la contrapposizione
esasperata tra integralismo religioso e laicismo esasperato.
E’ un paradosso insostenibile: il bipolarismo politico e
istituzionale deve ancora diventare compiuto mentre a
dominare la scena ci sarebbe un dannoso e paralizzante
“bipolarismo etico”.
No, non può essere. La risposta è nella sintesi. Nel punto
di equilibrio, che è dovere della politica e delle
istituzioni cercare, tra il valore pubblico delle scelte
religiose delle persone e la laicità dello Stato. A nessun
cittadino che abbia fede, quale essa sia, si chiederà di
lasciare fuori dalla porta della politica il proprio
percorso spirituale e i propri valori. Anche i non credenti
devono rispettare e tener di conto le opinioni di chi, mosso
dalla fede, può portare alimento alla vita pubblica. Al
tempo stesso, ognuno è tenuto a rispettare quel che la
nostra Costituzione afferma e salvaguarda: la laicità dello
Stato Repubblicano.
Ed è la democrazia stessa a imporre, a chi è legittimamente
mosso da considerazioni religiose, di tradurre le sue
preoccupazioni in valori universali e in proposte concrete
ispirate alla ragionevolezza, e non specifici della sua
religione. In una democrazia pluralista non c’è altra
scelta.
La politica, come è stato giustamente detto, dipende dalla
nostra capacità di persuaderci vicendevolmente della
validità di obiettivi comuni sulla base di una realtà
comune. E’ qualcosa che vale in particolare per temi come
questi, come la tutela della famiglia, come la difesa dei
diritti civili di ognuno. A guidarci c’è una Costituzione
che indica principi comuni a tutti noi. A guidarci deve
essere quel senso della misura, e dell’amore per la coesione
della propria comunità, che deve spingere a cercare sempre
un punto di incontro virtuoso che non mortifichi i
convincimenti degli uni o degli altri.
E’ questo spirito di ricerca e di confronto che sta alla
base della proposta di legge sui Dico. Se è certamente vero
ciò che Savino Pezzotta ha detto, circa il valore
costituzionale della famiglia fondata sul matrimonio, è
altrettanto vero che, come hanno fatto tutte le altre grandi
democrazie, anche in Italia è giusto riconoscere i diritti
delle persone che si amano e convivono.
Il Partito democratico deve avere in sé un’ambizione, al
tempo stesso, non autosufficiente ma maggioritaria. Deve
sapere che il suo messaggio di innovazione e di comunità può
motivare il suo campo e conquistare consensi anche diversi.
L’elettorato è razionale, mobile, orientato a scegliere la
migliore proposta programmatica e la migliore visione.
Fiducia in questa vocazione maggioritaria significa oggi
lavorare per rafforzare l’attuale maggioranza. Io rispetto e
stimo i nostri partner della coalizione. I sondaggi di
queste ore dicono che insieme ad una forte crescita del
consenso al Partito democratico si manifesta il ritorno
dell’Unione in testa nelle preferenze degli italiani. Così
deve essere. Un Partito democratico più forte può sostenere
il governo e la sua azione, e insieme fare più forte
l’Unione. E può chiedere a tutte le forze di governo,
cominciando da se stesso, più coesione, più spirito di
squadra, più ascolto reciproco.
Il partito che immagino è un luogo aperto. Aperto, in primo
luogo, ai giovani. Il gruppo dirigente dovrà essere
composto, a tutti i livelli, dai nuovi ragazzi che nei
partiti come nella società hanno voglia di spendersi per il
loro futuro e per quello del Paese.
Aperto ai cittadini, a quei movimenti che nel corso di
questi anni hanno interpretato meglio la domanda di
cambiamento, di rinnovamento della politica, che veniva
dalla società italiana.
Aperto a livello regionale, dove insieme a coloro che
vengono da storie e da appartenenze di partito dovranno
partecipare, contare e decidere, associazioni, gruppi,
comitati e singoli cittadini. Così daremo vita ad un partito
federale, dove il principio dell’autonomia guiderà le scelte
riguardanti le persone che vivono e lavorano in quel
determinato territorio.
E un partito nuovo può dirsi davvero nuovo solo se sarà
composto, a tutti i livelli, almeno per metà, da donne.
Negli organismi, nei governi. Quelle donne che hanno
realizzato conquiste fondamentali per sé e per la società
intera. Le liste che saranno collegate ai candidati alla
segreteria abbiano, ad esempio, un’alternanza di genere
anche tra i capolista.
E credo debbano nascere liste che non siano mai espressione
dei singoli partiti che hanno accettato la sfida. E’ giusto
così. Ed è il modo per accendere nei cittadini la voglia di
partecipare al voto del 14 ottobre. Che siano in tanti, in
tantissimi, a sentirsi chiamati in causa, ad essere
protagonisti già da quel momento della costruzione del
Partito democratico e della scelta del suo leader.
Questa la data, e questo il ruolo che verrà assegnato quel
giorno. Niente altro sarà in alcun modo predefinito: altre
primarie, che coinvolgeranno tutto il popolo dell’Unione e
tutte le anime della coalizione, stabiliranno a chi spetterà
competere come candidato premier alle prossime elezioni
politiche, visto che Romano Prodi, con un gesto raro in
questa nostra politica, ha già fatto sapere che il suo
lavoro terminerà alla fine della legislatura.
Insomma, ognuno di noi entra nel Partito democratico con la
propria storia e la propria identità, nessuno può chiedere a
nessun altro di rinunciarvi. Anche sul tema
dell’appartenenza internazionale, diciamoci la verità: ciò
di cui non solo noi, ma l’Europa ha bisogno, è un nuovo
campo, che racchiuda dentro di sé la straordinaria
esperienza del socialismo e la molteplicità delle culture
democratiche e dell’innovazione che esistono in tanta parte
del mondo. Non credo si possa pensare ad una grande
organizzazione mondiale delle forze di progresso che non
racchiuda dentro di sé i democratici americani o il Partito
del Congresso indiano e tante nuove forze che in Africa, in
Asia e in Europa nascono dalle sfide del nuovo millennio.
Rimango dell’idea che ho sostenuto in questi anni: una
grande casa dei democratici e dei socialisti.
A contare, più di tutto, è il fatto che ogni giorno che
passerà farà circolare e mescolare un po’ di più le nostre
idee, le nostre convinzioni, il nostro modo di guardare al
di fuori di noi stessi. Un libero scambio che sempre di più
farà sentire ad ognuno di essere non una sola cosa, ma più
d’una insieme. E cioè, semplicemente, un “democratico”.
Continuo a sperare che ad un partito così, con questi
tratti, con questa connotazione, possano guardare in modo
diverso anche molti tra coloro che fin qui sono stati, nei
suoi confronti, scettici o critici. E non posso,
personalmente, fare a meno di pensare in particolare a tanti
con i quali ho condiviso una lunga storia, momenti
importanti di vita non solo politica, e che a Firenze hanno
deciso di prendere un’altra strada. E con i quali spero si
possa riprendere un dialogo e un confronto. Come spero si
possa fare con quelle culture del riformismo socialista che
vogliono andare oltre un’ambizione che rischia di essere
nobilmente identitaria.
Ora bisogna fare “l’ultimo miglio”. Bisogna incrociare le
storie e aprirsi. Bisogna arrivare ad una
“indistinguibilità” organizzativa di ciascuno. Il Partito
democratico non sarà un partito di ex. Sarà, finalmente, la
casa dei “democratici”. La più bella definizione di sé che
un essere umano possa dare.
“Pensando e ripensando – è stato detto – non trovo altro
fondamento della democrazia che questo: il rispetto di sé.
La democrazia è l’unica forma di reggimento politico che
rispetta la mia dignità, mi riconosce capace di discutere e
decidere sulla mia vita pubblica. Tutti gli altri reggimenti
non mi prestano questo riconoscimento, mi considerano
indegno di autonomia fuori della cerchia delle mie relazioni
puramente private e familiari. La democrazia è, tra tutti,
l’unico regime che si basa sulla mia dignità in questa sfera
più ampia… Essere democratici vuol dire assumere nella
propria condotta la democrazia come ideale, come virtù da
onorare e tradurre in pratica”.
Sono parole di Gustavo Zagrebelsky, uno degli uomini di
questa Torino, città che ha dentro di sé passione e ed etica
del lavoro, una vera e propria cultura del lavoro. Città in
trasformazione, città che ha una grande storia. Città del
Nord, di quel Nord Italia dove si misura tutta la portata
dei cambiamenti sociali e culturali del nostro tempo. Città
simbolo dei lavoratori e della modernità, della società
industriale che diventa società dei servizi, della grande
impresa che affronta e vince nuove sfide e della piccola e
media impresa che cresce, del confine che nella nuova Europa
diventa connessione, di culture diverse che si confrontano e
si intrecciano parlando del futuro.
Torino, prima Capitale d’Italia, a quasi centocinquant’anni
di distanza è un richiamo alla nostra unità nazionale,
all’unità del Paese. Le cose migliori di Torino hanno avuto
un significato per il Paese, sono diventate valori
nazionali, spesso elementi concreti costituenti della storia
d’Italia. Ecco perché Torino è il Nord che non si vuole mai
contrapporre allo Stato.
Torino città degli inizi, che dà avvio ai grandi processi,
che sa mettere in cammino le cose, che guarda e proietta le
idee oltre di sé. E il Lingotto, luogo operaio che
attraverso Renzo Piano diventa luogo della cultura, simbolo
della capacità della città di non rinunciare, di
reinventarsi. Della città che investe negli anni difficili,
che china la testa ma non si arrende, e senza mai rinnegare
le radici cambia pelle, riparte. Per tutto questo ho voluto
essere proprio qui, oggi. Essere qui con te, sindaco
Chiamparino.
Non sono state ancora precisate le regole della elezione
della Assemblea Costituente, né quelle per il segretario.
Quando ciò sarà stato definito si potrà formalizzare o meno
una candidatura. Se ce ne sarà più d’una potrà essere un
bene. L’importante è che siano espressione di piattaforme
politiche chiaramente diverse. Altrimenti apparterrebbero,
come logica, ad un tempo che tutti vogliamo superare.
Io per oggi non posso che registrare con grande
responsabilità e gratitudine che attorno al mio nome si sta
manifestando un consenso molto ampio. Lo considero il
risultato della generosità degli altri e forse il
riconoscimento della coerenza con la quale ho sostenuto
questa idea politica in tutti questi anni.
E’ per me un onore grande e una grande responsabilità. Il
mio programma di vita è un altro e so che ci sono dei luoghi
del mondo e del mio cuore nei quali dovrò tornare, che mi
chiamano. Ma non ho mai pensato che la vita e la politica
fossero un territorio per vedere esclusivamente realizzate
le proprie ambizioni e i propri disegni. La politica non è
una passeggiata solitaria nella quale puoi scegliere i
percorsi e le soste che più ti piacciono. E’ un meraviglioso
viaggio collettivo. Vorrei che lo facessimo per una volta in
allegria, con la serenità che in questa casa più grande, con
amici nuovi, tutti possiamo essere diversi.
Se questo partito, infatti, dovesse iniziare il cammino con
i difetti della politica preesistente, con i gruppi e le
correnti chiuse e in conflitto, sarebbe quanto di più
lontano dallo spirito che in queste ore sento attorno a noi,
dalla nuova fiducia per una possibilità che si apre. Non si
comincia un nuovo viaggio con un equipaggio dilaniato da
vecchi rancori e preoccupato di gettare dalla nave chi ad
essa si affaccia per la prima volta.
Si è scelto un metodo, quello dell’elezione diretta,
certamente sapendo che cosa esso postula come modello di
vita interna. Io avevo e mantengo molte perplessità ma così
è. Una leadership forte deve esercitare tutte le
prerogative, nessuna esclusa, e deve saperlo fare ascoltando
e condividendo. Il partito dispone già oggi di tante
personalità e altre ancora ne verranno, altre ne
conosceremo. Le opinioni di tutti saranno importanti.
Ora appare già credibile e possibile una nostra ripresa, e
credo che i nostri avversari avvertano che molto sta
cambiando e che essi stessi non potranno restare fermi.
Il Partito democratico al quale pensiamo, voglio dirlo
ancora una volta, è uno strumento per i nuovi italiani.
C’è una generazione che rischia di subire il furto più
terribile, quello del futuro, e di essere catturata dal
sentimento più negativo e paralizzante che ci sia, la paura.
Ed è un paradosso inaccettabile che questo avvenga in un
tempo che come mai è proiettato nel domani, che come mai è
ricco di opportunità, che offre possibilità di conoscenza,
di formazione, di comunicazione e di scambi una volta
impensabili, di relazioni umane e culturali una volta
impossibili.
E se qualcuno dice che c’è chi vuole “rendere uguali il
figlio del professionista e il figlio dell’operaio”, noi
rispondiamo sì: vogliamo che siano uguali. Uguali non nel
punto di arrivo. Ma in quello di partenza. Vogliamo che il
figlio dell’operaio abbia tutte le opportunità cui ha
diritto. Vogliamo che siano le sue capacità, i suoi
sacrifici, la sua intelligenza a dire dove arriverà, e non
che il suo posto nella società di domani sia stabilito a
priori dal salario che suo padre porta a casa dopo una
giornata passata davanti a una pressa. Vogliamo che il
figlio del professionista non debba trovare più comodo o più
realistico seguire il sentiero già tracciato, che possa
scommettere su se stesso e seguire ciò che lo affascina, e
diventare un ricercatore, uno scienziato, se è questo che
desidera.
C’è troppa “ereditarietà” nella società italiana. Se c’è una
cosa, tra tanto parlare degli Stati Uniti, che dovremmo far
nostra è quel principio di mobilità verso l’alto che è il
cardine del modello americano. Chi è in basso deve poter
salire. Chi vuol cambiare deve poterlo fare. Deve avere la
speranza di poterlo fare e le opportunità per farlo. Deve
poter credere che il futuro è nella sua mente, nel suo
cuore, nella sua determinazione. E in più, se cade, deve
poter trovare una rete che lo salvi e gli consenta di
ricominciare a sperare.
Una società chiusa, rigida, burocratica, provoca e alimenta
rabbia e frustrazione. Non è questa la via giusta. Dobbiamo
decidere che Paese essere. Il Paese dell’egoismo sociale e
del corporativismo, dell’incattivimento populista e
dell’odio. Oppure un Paese che pensa positivo, volta pagina,
guarda al futuro.
Permettetemi di concludere leggendovi poche righe. Parole di
una nuova italiana. Di una ragazza della mia città, una
ragazza di quindici anni. I suoi genitori hanno acconsentito
che io usassi i pensieri raccolti in una sua lettera, perché
lei non c’è più. Era una ragazza che doveva venire con noi
in uno dei viaggi che facciamo in Africa con gli studenti
delle scuole romane. Sono parole che mi tornano alla mente
ogni volta che vedo emergere i segni di una società chiusa
in una rabbia e in un egoismo cieco. Sono parole pensate e
scritte solo due mesi prima di morire, in una lettera
indirizzata ai suoi genitori nei giorni di Natale. “Durante
la malattia, devo ammetterlo, ho pensato spesso e volentieri
di essere la persona più sfortunata del mondo, e per questo
mi vergogno di me stessa e mi considero cattiva ed egoista.
Non ho pensato che ci sono persone nel mondo che, oltre alla
malattia, devono combattere contro fame e povertà. Per
questo ho deciso di regalarvi (anzi, regalarci) un’adozione
a distanza. Spero di avervi fatti felici. Mi dispiace di non
avere un regalo che possiate scartare, ma spero così di
lasciarvi sorpresi”.
Eccoli, i nuovi italiani. Sono così. Sono i nostri figli,
sono i nostri nipoti. A loro abbiamo il dovere di consegnare
un’Italia unita, moderna, giusta.
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